E’ stata la mano di Napoli
L’ultimo film di Paolo Sorrentino è tutto quello che non fu all’epoca La Grande Bellezza (2013). Dove nel film romano abbondavano i formalismi, gli spettacolari movimenti di macchina sui monumenti della capitale, e un apparente intimismo che però mal celava il vuoto di fondo, qui troviamo un’opera che dice molto e mostra solo il necessario. Certo, si potrebbe obbiettare che il girovagare del primo sia voluto, per mostrare la vacuità della bella vita romana, ma il punto è proprio questo: anche il film non è esente dalla stessa critica. Come spiegò Philippe Ridet sull’ “Internazionale”, la recezione (in Italia e all’estero), di La Grande Bellezza mostra come la decadenza della città eterna, venga quasi applaudita, ancorandosi a una bellezza che sta svanendo senza chiedersene il motivo.
Gli Oscar dal canto loro premiarono, come succede spesso, la superficialità, la nostalgia per un’immagine stereotipata dell’Italia che ricorda vagamente La Dolce Vita (1960), di Fellini. Le frasi ad effetto non bastano a dare profondità, tantomeno quella della santa: “Sa perché mangio solo radici? […] Perché le radici sono importanti”. Ma le vere radici di Paolo Sorrentino, le possiamo vedere in È Stata La Mano Di Dio. Credo che anche se non fosse stato un film autobiografico, questo sarebbe comunque il più personale del regista. Perché? Perché parla della città dove è nato e cresciuto, ma soprattutto perché lo fa meglio di molti altri. Sorrentino non risparmia un’inquadratura, una battuta, senza dover ricorrere al minimalismo, si ha l’impressione di vedere Napoli nella sua forma più autentica ed essenziale. In un panorama mediatico dove la sua rappresentazione si alterna tra un grigio campo di battaglia tra bande di mafiosi, e una ridicolaggine forzata che scade nello stereotipo, qui la città parla allo spettatore tramite i suoi abitanti nella complessità delle loro vite, dandogli dignità. Lo scambio di battute tra Fabietto e il padre riguardo alla notizia della banca sull’acquisto di Maradona, le brutte maniere della signora Gentile, le folkloristiche visioni di zia Patrizia, tutta questa pletora di personaggi fa sentire allo spettatore l’anima di Napoli.
Anche in questo film ci sono occasionalmente vedute sceniche sui lati migliori della città (in primis il piano sequenza iniziale col drone sul golfo), ma finita la visione ciò che rimane di più nella memoria sono comunque le persone che la vivono. Il punto è proprio questo: c’è fin troppa Roma e Milano nel cinema e nella televisione italiana, dobbiamo dare più visibilità alle città più periferiche. Volendo ritornare al paragone con Fellini, anche la sua Roma (1972), non è una delle sue pellicole migliori, dove cercò di racchiudere una realtà grande e complessa in una serie di situazioni, senza soluzione di continuità; ma l’anno successivo riuscì nell’impresa spostando l’attenzione sui luoghi della Romagna dove crebbe. Guarda caso, il titolo stesso di Amarcord (1973), è diventato un neologismo per i ricordi dei luoghi a noi cari, e anche un cinefilo dell’epoca poteva ricordare gli inizi del regista con I Vitelloni (1953), ambientato in quei lidi. Dovremmo prendere come mantra il consiglio di Capuano a Fabietto: “Non ti disunire”. Non dovremmo disunirci dai luoghi in cui siamo nati, per quanto a volte ci maltrattino, sembrino ignorarci, sono comunque parte di noi e parte dell’Italia come nazione. Forse il cinema italiano dovrebbe ripartire da qui, forse l’invito a rimanere a Napoli del regista al protagonista è una dichiarazione d’intenti del film intero; e chissà, forse anche dei futuri progetti di Paolo Sorrentino…
E’ stata la mano di Napoli, approfondimento a cura di Lorenzo D’Alessandro.
Film: E’ stata la mano di Dio
Regista: Paolo Sorrentino
Casa di produzione: The Apartment, Fremantle
Distribuzione in italiano: Netflix, Lucky Red
Paese di produzione: Italia
Musiche: Lele Marchitelli